Il centenario delle scuole Steiner-Waldorf, intervista a Cristina Laffi

Incontro con Mimmo Perrotta e Gabriele Vitello
(Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Gli Asini)

Nel 2019 ricorre il centenario della fondazione della prima scuola Steiner-Waldorf a Stoccarda. Sia a livello internazionale sia italiano il movimento steineriano è impegnato in una serie di iniziative e convegni. Per saperne di più si possono consultare i siti www.educazionewaldorf.it e www.waldorf-100.org. Di alcuni aspetti della pedagogia steineriana abbiamo parlato con Cristina Laffi, maestra della Scuola Steineriana Maria Garagnani di Bologna e rappresentante italiana all’interno del Forum Internazionale del Movimento delle scuole Steiner-Waldorf.

Cento anni di scuole Waldorf

Parlare del movimento Steiner-Waldorf è impegnativo perché è un movimento molto vivace che ha una dimensione internazionale. La prima scuola è nata a Stoccarda nel 1919 quando un illuminato imprenditore, Emil Molt, che già da tempo aveva incontrato la Scienza dello Spirito antroposofica e le idee sulla triarticolazione sociale di Rudolf Steiner, decise di progettare una scuola per i figli dei suoi operai e a tal fine donò il suo patrimonio personale, nominando direttore pedagogico della nascente scuola proprio Steiner. Ciò che spinse Emil Molt e Rudolf Steiner a compiere questo straordinario e generoso atto fu la consapevolezza che c’era bisogno di un impulso culturale nuovo che potesse contribuire a risollevare l’Europa e il mondo intero dal baratro nel quale si era scivolati con il primo conflitto bellico, a causa dell’egoismo e del materialismo dominanti nelle classi politiche e nella cultura, e ad inaugurare una nuova fase. C’era bisogno di una svolta, di un atto coraggioso – nella cornice storica del 1919 e sulle ceneri lasciate da quella drammatica ed inedita esperienza – che guardasse all’essere umano in un modo diverso e che proprio da queste premesse cercasse una vivente arte dell’educazione scaturita da una vita spirituale, per le giovani generazioni presenti e future, una pedagogia che guardasse al futuro e che permettesse di ripensare alla società in un modo sorprendentemente nuovo. E questo avvenne proprio con la fondazione della scuola Waldorf.

Dopo la scuola di Stoccarda, ne sorsero altre in Svizzera, Olanda e Germania, ma negli anni Trenta esse furono messe a tacere dall’ondata nazionalsocialista e alcune dovettero poi chiudere, anche per le vicende che portarono ad una seconda e altrettanto nefasta guerra. Dopo il 1945 alcune scuole riapparvero, prima in area germanica, poi anche in altri paesi europei, e poi in tutti e cinque i continenti.

Oggi si contano circa 1800 asili e 1500 scuole in tutto il mondo. Ci sono scuole Waldorf in Israele, Vietnam, Guatemala, Hawaii, Australia, Nuova Zelanda, Moldavia, nelle Repubbliche baltiche, in Sudafrica ecc.; anche in Paesi, come la Cina, dove la cultura non è del tutto libera, dove parlare di libertà di educazione e di spirito non è affatto scontato.

L’obiettivo dei fondatori delle scuole Waldorf era quello di creare una nuova pedagogia che avesse innanzitutto una visione dell’essere umano allargata e che fosse in grado di preparare in un modo diverso le future generazioni, travalicando i confini nazionali, culturali, politici e religiosi. La pedagogia Waldorf ha infatti una vocazione universalistica che le permette di vivere in contesti culturali, legislativi e religiosi assai diversi e di sopravvivere anche in territori difficili e ostili.

Il movimento italiano è nato nel 1946, quando venne fondata la prima scuola, a Milano, a cui seguì la scuola di Roma negli anni ’50. La crescita delle scuole italiane si ha negli anni ’90, quando nascono quelle di Bologna, Conegliano, Cittadella, Trento, Palermo. Oggi abbiamo in Italia 32 scuole e 40 asili. A livello europeo, è attivo lo European Council for Steiner-Waldorf Education, un organismo che raggruppa 26 paesi, che ha un ufficio di rappresentanza a Bruxelles e che svolge lavoro di advocacy presso il Parlamento europeo.

A scuola a sette anni

Le scuole Waldorf sono molto diverse da altre scuole che si basano su un metodo molto codificato che garantisce la loro esportabilità in tutti gli angoli della terra. In realtà nella scuola Waldorf noi non abbiamo un “metodo” nel vero senso del termine. Abbiamo un piano di studi che parte dall’asilo e arriva fino alla dodicesima classe e che è pensato sulla base dello sviluppo fisico, animico e spirituale dell’essere umano in divenire e prevede una scansione in settenni. Questo perché l’essere umano ha bisogni diversi a seconda delle età ed è necessario rispettare queste tappe per dargli ciò di cui ha bisogno in quel momento. Un bambino piccolo deve sperimentare, toccare, muoversi, conoscere il mondo attraverso il suo corpo. Se questo non avviene – quando ad esempio il bambino impara attraverso la televisione o qualsiasi altro mezzo meccanico, o quando viene messo su un seggiolone che gli impedisce di muoversi e di entrare in contatto con la natura – la sua anima ne soffre. Per questo motivo, l’attività principale dei bambini nei nostri asili è il gioco libero guidato dalla maestra. È necessario, inoltre, creare un’atmosfera calda e tranquilla, nella quale siano previste delle pause e dei momenti di silenzio. Negli asili bisogna utilizzare dei materiali adatti al bambino che gli permettano di sviluppare la sua fantasia. Per questo le nostre bambole non hanno tante espressioni: è il bambino che deve immaginare se la bambola è triste o allegra, o se è un cavaliere, una principessa, una servetta o un’altra figura. Materiali naturali come il legno, il cotone, la lana e la cera d’api sono quelli usati di preferenza in questa età.

Poi a un certo punto c’è una tappa fondamentale che è la maturità scolare. Per noi non è vero che il bambino è sempre maturo per andare a scuola. Quando è pronto per andare a scuola, il bambino ci manda dei segnali. Mostra senz’altro dei cambiamenti sul piano fisico. Quando gioca, il bambino progetta, pensa e pianifica; comincia inoltre a fare delle domande diverse, a sviluppare la memoria e a desiderare di imparare, non più di giocare. Quando un bambino si sta avvicinando alla soglia dei sei anni e mezzo o sette, la scelta se mandarlo o meno a scuola è compito di un team di persone composto dalle maestre di scuola, dalle maestre d’asilo e dal medico scolastico.

Noi quindi mandiamo i bambini a scuola più tardi rispetto agli altri. Questa è una differenza molto significativa rispetto ai sistemi educativi convenzionali: ovunque, nel mondo anglosassone, e anche in Giappone, i bambini vanno a scuola a cinque anni. Credo che la Finlandia sia ancora uno dei pochi Paesi in cui i bambini iniziano la scuola a sette anni. Questa nostra peculiarità è a volte anche un grosso ostacolo perché spesso le famiglie fanno un po’ fatica ad accettarla: temono che il loro figlio perda un anno di scuola. Tuttavia, noi riteniamo che se lo si manda a scuola troppo presto, il bambino poi si porti questa precocità per tutta la vita: è troppo presto in prima classe, ma poi anche in seconda, in terza e così via.

I settenni

Nell’asilo fino all’età dei sette anni il nostro motto è “il mondo è buono”. Il bambino deve fare l’esperienza del mondo che lo accoglie rispettando i suoi tempi, con benevolenza e calore: da qui l’importanza dell’abbigliamento giusto, dei giocattoli giusti, di narrazioni, di fiabe e di un linguaggio non astratto.

Nel secondo settennio, dai sette ai quattordici anni, emergono nuovi bisogni: è importante avere intorno degli adulti che costituiscano per gli studenti dei punti di riferimento per la loro vita, che decidano per loro, che diano una direzione. Caratteristica della nostra scuola è la figura del maestro di classe, un tutor che segue i ragazzi per otto anni e che incarna il principio dell’autorità. Steiner diceva che è molto bello se i ragazzi guardano con ammirazione, affetto e simpatia il maestro e fanno le cose perché gliel’ha detto il loro maestro, per fargli piacere. Questo a volte viene visto come una forma di influenza, di plagio. Ma è un errore. Noi crediamo piuttosto che sia sano per il bambino dire: “amo così tanto il mio maestro che voglio fare bene il compito”, “ho confezionato questo portaflauto per me, ne faccio un altro per il mio maestro”.

Ovviamente il principio di autorità non va confuso con l’autoritarismo. È una autorità che sorge spontaneamente dal continuo rapporto che si instaura col bambino e che lui riconosce in te grazie alla tua coerenza: non solo in quello che dici, ma in ciò che fai, in ciò che sei. Il maestro di classe non insegna tutte le materie ma una buona parte. Nel secondo settennio di vita, noi guardiamo ai maestri del Rinascimento, a Leonardo, che riuniva in sé scienza, arte e religione, come nostro ideale. Ma, ovviamente, il maestro unico può delegare a un collega l’insegnamento di una materia nella quale non si sente ferrato. Attorno al maestro unico ruota tutta la classe per otto anni, dalla prima all’ottava. Ha un rapporto più stretto con le famiglie e col medico scolastico che visita tutte le classi tutto l’anno. In otto anni cambiano i bambini e cambi anche tu, il tuo linguaggio: in prima racconti fiabe e arrivi in ottava che narri la biografia di Nelson Mandela, Gandhi, Marie Curie e Einstein. In prima, fai i primi conti coi sassolini mentre in ottava ti avvicini allo studio delle funzioni. Ogni anno sei costretto a vivificarti in ciò che fai, adattandoti alla classe.

Un’altra caratteristica della nostra scuola è il ruolo dell’arte. Nel secondo settennio il nostro motto è “il mondo è bello”. Oggi il concetto di bellezza è abusatissimo, anche in politica o a fini economici. Ma nella visione steineriana del mondo l’arte occupa un posto centrale. Steiner diede un grande impulso al mondo delle arti creando l’Euritmia, la nuova arte del movimento, la Sprachgestaltung, l’arte della parola, l’Architettura organica, l’Arte sociale e rivivificò tutte le altre arti preesistenti. Nel secondo settennio l’arte è lo strumento pedagogico per eccellenza. Non perché i nostri ragazzi debbano per forza diventare tutti degli scultori, ricamatori o carpentieri, ma perché tutto l’insegnamento deve essere permeato creativamente dall’insegnante di un approccio artistico: la geografia, le lingue straniere, la storia e persino l’aritmetica. Le discipline devono essere vivificate attraverso disegni, immagini, costruzioni plastiche, lavori manuali e rappresentazioni teatrali. Persino la grammatica può essere resa più viva dall’arte. Oggi nessuno più insegna come si declama una poesia, come si recita un brano epico – c’è differenza tra recitare e declamare – o, ancora, a disegnare o dipingere una cartina geografica, costruire un pentadodecaedro quando fai geometria solida. Tutto questo vuole dire passare attraverso un’esperienza vivente e processuale che il ragazzo, per giunta, fa non da solo ma coi suoi compagni e i suoi insegnanti, quindi interagendo con gli altri anche emotivamente (lo stare insieme, l’imparare dagli altri) e che porta all’espressione di qualcosa di bello. Bello non fine a se stesso, ma bello perché serve una funzione: una bambola, un giocattolo, un costume, una scenografia, un grembiule, una lampada. Per Rudolf Steiner era molto importante che la bellezza degli oggetti fosse inerente alla loro funzione.

L’insegnamento delle materie scientifiche ha un approccio goetheanistico, cioè include sempre l’osservatore, chi fa l’esperimento. Goethe è stato un grande letterato ma anche l’iniziatore di un movimento di grande rinnovamento nelle scienze, attraverso la teoria dei colori e libri come La metamorfosi delle piante, libri meravigliosi sugli animali dove emerge la sua grande conoscenza della natura, delle forme vegetali e minerali. Ci sono delle sue pagine, ad esempio, sul granito, che sono esempi di geologia vivente e che mostrano la sua capacità di guardare la natura con occhio non freddo, non distaccato, non vivisezionante. Tenendo dunque presente l’esempio di Goethe, a scuola si parte sempre dagli esperimenti. Non si parla durante l’esperimento ma lo si osserva in silenzio senza commenti in modo che si possa vivere al meglio l’esperienza. Il giorno dopo si rammenta quello che è stato fatto e lo si riordina spazialmente e temporalmente attraverso delle domande. Solo il terzo giorno si arriva alla legge. Bisogna rispettare questa processualità nell’apprendimento, altrimenti vi è il rischio che i contenuti appresi rimangano per tutta la vita come qualcosa di non ben digerito e che si trasformi poi in un qualcosa di perennemente indigesto.

A 14 anni il ragazzo attraversa un’altra cesura importante che è la pubertà, una maturità terrestre. La scuola Waldorf inaugura un nuovo capitolo, che è il terzo settennio: “il mondo è vero”. Il piano di studi è ora finalizzato al risveglio dell’individualità del ragazzo, della vita del pensiero. Si studiano filosofia, letteratura, matematica, geometria proiettiva… Attività di pensiero, ma al tempo stesso anche tante attività manuali, per esempio la battitura del rame e il lavoro sulla pietra: il practicum. I ragazzi vengono mandati a svolgere un’attività, a fare un tirocinio pratico. L’intento del terzo settennio è che il ragazzo sviluppi una capacità di pensiero critica. Imparare a distinguere tra idolo e ideale, tra finzione e fantasia. Il mondo dell’ideale, ma anche il mondo della volontà: non posso solo criticare, che cosa posso e devo fare io per…? Il piano di studi è comune, ma ogni scuola lo declina in autogestione, secondo il territorio, la cultura, le capacità economiche e in accordo agli ordinamenti di ogni stato. In Italia, ad esempio, le due attuali scuole superiori Waldorf sono quella di Milano, che ha scelto un liceo scientifico-artistico, ad indirizzo sperimentale, e quella di Conegliano Veneto, che si indirizza alla bioedilizia e all’agricoltura biodinamica.

Un’arte dell’educazione

Noi non vogliamo dare voti. Il voto non deve essere una leva sulla quale lavorare per raccogliere stima, fiducia e motivazione da parte dei ragazzi. Ciò non significa che non si faccia una valutazione delle competenze maturate dagli allievi o che non si debba fare una valutazione delle nostre capacità di insegnare. Però non è come dare ai ragazzi un giudizio secco, freddo (numerico e non: la sostanza non cambia) del loro lavoro.

Ci teniamo a chiamare la nostra pedagogia non scienza dell’educazione ma arte dell’educazione. Steiner diceva: che cosa c’è di più nobile che educare l’essere umano e usare come materia della propria arte l’essere umano? Il ruolo degli educatori è dunque delicatissimo. Col tuo fare, col tuo atteggiamento, puoi veramente influenzare il destino di un ragazzo. Noi dobbiamo essere tutti molto consapevoli di quello che facciamo col bambino. Però non lo possiamo sapere prima di averlo incontrato. Possiamo prepararci, possiamo studiare, possiamo avere le basi, ma non possiamo sapere di che cosa ha bisogno quel ragazzo o quella ragazza fino a che non l’abbiamo incontrato. Quindi l’arte dell’educazione nasce dall’incontro tra l’insegnante e la classe. E qui si vivifica e si amplia e si sviluppa, anche attraverso dei fallimenti. E questo include anche la notte, perché durante la notte noi elaboriamo, in maniera incosciente, le impressioni e le esperienze fatte nella vita diurna, di veglia. E il giorno dopo accade che quando ci risvegliamo noi abbiamo elaborato queste esperienze e siamo capaci di dare un taglio diverso a ciò che abbiamo fatto ieri. Noi di notte facciamo ciò che non possiamo fare di giorno. E molto spesso noi maestri facciamo quest’esperienza: il bambino che ieri magari ha affrontato un compito con una certa difficoltà, il giorno dopo riesce a farlo senza problemi. O lo elabora in maniera diversa, attraverso una maggiore presenza individuale. Per noi è pedagogicamente inefficace dare un compito il giorno stesso in cui si è affrontato un argomento. Deve prima passare la notte.

Un’altra caratteristica è l’insegnamento “ad epoche”. Quotidianamente, prima delle 10.30 noi realizziamo quello che viene chiamato l’insegnamento principale: per quattro-cinque settimane la classe si occupa di una sola materia (storia, geografia, matematica, fisica…), e porta avanti un certo tipo di programma, si immerge completamente in questa attività. Questo Steiner lo chiamava l’insegnamento animico-economico: impegnarsi in un’ora di matematica, un’ora di geografica, un’ora di storia ecc., nella stessa mattinata, affatica troppo i ragazzi. È più utile occuparsi di una sola materia per un intero ciclo; poi questo ciclo si chiude e se ne apre un altro, magari completamente diverso. Ad esempio dopo l’epoca di storia si passa all’epoca di fisica o di matematica. Quindi si lascia un periodo di pausa, di sonno, che non vuole dire che non si fa niente, ma durante il quale ci si dedica coscientemente ad altro oppure per i ragazzi più grandi magari si esercita e si ripassa, ma non si introduce niente di nuovo, proprio per permettere alla disciplina chiusa di depositarsi e a quella nuova di avere il suo spazio. L’orario scolastico è costruito in base a delle ore, o unità didattiche, soltanto dopo le 10.30, quando ci si dedica alle altre materie (lingue straniere, musica, lavoro manuale…). Il principio dell’insegnamento a epoche è un criterio pedagogico che vale fino alla dodicesima classe.

Scuola e famiglia

Il ruolo della famiglia è fondamentale. Le scuole Waldorf sono nate dall’idea che i genitori hanno il diritto di scegliere l’educazione dei loro figli e quindi anche il sistema di istruzione. Un diritto sancito dalla nostra Costituzione e dalla Carta europea.

Il ruolo dei genitori è fondamentale, ovviamente, sul piano economico, perché noi dipendiamo, per la nostra sopravvivenza, dai contributi dei genitori, in quanto il finanziamento che riceviamo dallo Stato come scuola paritaria non è decisivo. Ma non è solo questo. I genitori sono importantissimi perché, se esiste un corpo insegnanti che porta l’ideale e che deve svolgere un lavoro di formazione permanente, è fondamentale che la famiglia conosca questo percorso e ne abbracci i presupposti fondanti. È necessario che le famiglie condividano con gli insegnanti alcuni valori fondamentali, perché altrimenti, se non c’è coerenza tra la casa e la scuola, il bambino riceve due messaggi opposti e non sa a chi prestare ascolto.

Noi, come scuola, offriamo un programma culturale con il quale cerchiamo di fornire degli strumenti alle famiglie: incontri propedeutici per conoscere la pedagogia, gruppi di studio, laboratori artistici, una biblioteca ricca di libri, conferenze, seminari (nei quali affrontiamo temi anche specifici, come quello delle tecnologie). Le famiglie collaborano tantissimo alla vita quotidiana della scuola, si occupano delle pulizie e della manutenzione dell’edificio nella misura più ampia possibile, collaborano tra di loro nella gestione dei bambini o col car sharing; condividono l’idea della fratellanza, di una comunità in cui il genitore impara a prendersi cura anche dei bambini degli altri, per cui non deve interessarsi solo del proprio figlio, nella consapevolezza che il suo gesto educativo privato a casa ha delle ripercussioni su tutta la vita della classe.

Uno dei punti su cui più spesso capita di confrontarsi coi genitori è l’uso delle tecnologie. Nelle scuole Waldorf riteniamo che non sia corretto far utilizzare a un bambino un computer o uno smartphone prima dei 14 anni. Non siamo tout court contro le tecnologie, ma ragioniamo su quale sia l’età giusta per usarle. A 14 anni il ragazzo comincia ad aver bisogno della tecnica, deve quindi innanzitutto conoscerla per non esserne dominato. Siamo consapevoli del fatto che i bambini spesso sanno usare il computer molto presto e conoscono le tecnologie meglio di noi. Tuttavia, usare le tecnologie non dev’essere l’unico aspetto. Nella Scuola Waldorf cerchiamo di far conoscere l’hardware prima di usare il software. Poi, nelle scuole superiori, per esempio, si lavora sul cinema, producendo dei piccoli cortometraggi; c’è un approccio storico alla tecnologia: fotografia, cinema, televisione, media digitali. Ma tutto questo dev’essere fatto all’età giusta.

La scuola e lo stato

Nel libro I punti essenziali della questione sociale Steiner diceva che la cultura e quindi anche la scuola e l’educazione dovrebbero essere libere, cioè avere una propria vita autonoma, non vincolata dall’ingerenza dello Stato. Possiamo dire che a distanza di cento anni siamo ancora molto addietro nel comprendere questa affermazione e molto lontani dalla sua piena realizzazione.

Per questo nel mondo oggi vi sono situazioni molto differenti tra loro. In alcuni paesi, come il Brasile, il titolo di insegnante Waldorf permette di insegnare in qualunque scuola. In Germania, un’Università, la Alanus Freie Hochschule, riconosce il percorso di maestro Waldorf su un piano accademico, conferendo un diploma con cui è possibile insegnare in tutte le scuole della Germania. In Olanda, le scuole Waldorf sono per la gran parte pubbliche. Esistono scuole Waldorf che non accettano il riconoscimento statale ed esistono sistemi misti, dove la scuola viene riconosciuta dallo Stato, ma può definire autonomamente il proprio piano di studi, senza ingerenze nella formazione e nel reclutamento dei maestri. Esistono infine scuole a regime completamente privatistico. Dipende dai paesi. Nello stesso paese possono coesistere tre regimi diversi: completamente privatistico, statale e para-statale. Negli Stati Uniti per esempio esistono le charter o chartered schools, scuole ad indirizzo steineriano, ma esclusivamente sul piano metodologico: l’impulso spirituale è debole o assente.

Essere autonomi dallo Stato, come invitava a fare Steiner, non è semplice. Quando non riesci a sopravvivere, come fai? Lo stesso Steiner, sin dal primo anno di vita della sua scuola, si vide costretto ad accettare dei compromessi, con il Land del Baden-Württenberg, dove si trova Stoccarda. La scuola fondata da Emil Molt crebbe così velocemente che non sapevano più come fare e dovettero trovare delle soluzioni per dialogare con i governi locali e con le istituzioni. Come fai se non hai i soldi per pagare gli stipendi degli insegnanti? Occorre rivolgersi alle donazioni, ma anche questa attività di fund-raising deve essere motivata idealmente, se vuole essere efficace.

L’altro corno del problema riguarda il pagamento della retta da parte delle famiglie. Nella nostra scuola abbiamo genitori di molte provenienze sociali: dipendenti pubblici, piccoli imprenditori, docenti, operai, contadini, disoccupati. La condizione economica non dovrebbe essere discriminante: noi vorremmo accogliere tutti coloro che condividono il nostro piano dell’offerta formativa. Da un lato, le rette devono essere sostenibili per le famiglie; dall’altro lato vi è la necessità di garantire situazioni economiche e contrattuali dignitose agli insegnanti. Non conosco nessun insegnante Waldorf che sia diventato ricco facendo il maestro, ma è pur vero che in Italia siamo sicuramente sottopagati – come anche tutti gli altri docenti in generale – rispetto ai nostri colleghi finlandesi o tedeschi. D’altra parte, la disponibilità di denaro non è sufficiente perché le cose vadano bene. Alla scuola è necessaria una continua rivivificazione degli ideali, affinché insegnanti e genitori siano motivati e desiderino collaborare tra di loro. Noi non vogliamo essere una scuola elitaria, ma al momento, credo, dobbiamo accontentarci di lavorare bene e di essere solo dei semi per il futuro. Sicuramente l’esistenza delle scuole Waldorf si basa sul profondo convincimento – da parte di insegnanti, genitori, amministratori – che esse debbano esistere e occorre, quindi, un grande sforzo di volontà da parte del singolo e di un gruppo cospicuo di esseri umani che le vogliono sostenere.

Potrebbero interessarti anche...